Agosto 2017

Ago 01 2017

Entrando in una delle stanze più amate del mio ego, il box, oltre alla Audi 4 Avant, verso il fondo, nella penombra, si possono intuire due parallelepipedi orizzontali, posti uno di fronte all’altro. Sono i due armadi che contengono gli oggetti, le reliquie e gli indumenti delle mie passioni, della mia storia. In quello di sinistra, tutto ciò che riguarda il driving, le corse. Guanti ignifughi, sottocaschi, caschi (negli anni, sempre con le stesse livree, vale dire repliche di quella di François Cévert), scarpe da guida, tute di varie cromie, il tutto omologato per le competizioni in kart e in automobile. In quello di destra, tutto ciò che riguarda il diving. Aprendolo, è come entrare in un museo. Si può osservare, toccare e percepire dal vivo l’evoluzione della tecnologia subacquea degli ultimi 45 anni. Scorrendo ometto dopo ometto puoi toccare con mano le mute: dalla gloriosa Pirelli (chissà perché non tornano a produrle oggi, in vari colori sgargianti) alla Cressi 3 millimetri, alla fantastica Technisub del 1978, salopette e corpetto in gomma martellata, foderata in neoprene, 7 millimetri di spessore (1,4 centimetri al torace), ottima per le immersioni in profondità, in acque invernali, nei laghi. Una muta che usavo 20 chili fa, e che oggi usa ancora mio figlio per le immersioni primaverili. Pensate alla qualità che manifesta questo prodotto dopo 40 anni! Immancabili, ormai da trent’anni, le collaudatissime Scubapro da 1 millimetro o da 3, corte o intere. Ci sono mute che oggi quando le indossi dopo due, tre anni di immersioni si disintegrano, ti rimangono tra le mani pezzi interi di manica, di pantalone, come se fossero fatte di carta straccia. Scorrendo, nell’armadio puoi trovare un vecchio Aro (autorespiratore a ossigeno) dei Comsubin che usavo nel 1975, o il Sanosub C96 di mio figlio Alessandro, una «ciambella» Fenzy con il relativo bombolino, un Gav fine anni 70 con la frusta collegata alla bombola o uno dei primissimi octopus montato sul primo stadio della bombola. Se guardi in basso verso destra, in mezzo a 15 chili di piombi e cinture, puoi scorgere il vecchio e caro schienalino vulgaris, portabombola. A fianco, ben piegati, i miei erogatori, dal Mistral monostadio del ’73 al primo Scuba Mark III del ’78, all’M5 dell’82 e via via con gli altri, tutti e sempre Scuba. Oltre alle gloriose pinne, Jetfin, Rondine e Mares. E poi le grandi, ingombranti ma leggere bombole, due mono da 15/18 litri. Nel 1973, quando cominciai a immergermi (autodidatta), i gav non li avevano ancora inventati: per variare l’assetto dovevi usare i tuoi polmoni. Tanto meno esistevano i computer; si usavano (esattamente come faccio oggi) l’orologio, la tabella della Us Navy e il cervello. La programmazione dell’immersione la calcolavi a mente, nella tua zucca: tempo totale di immersione, parziale di discesa, di permanenza alla quota stabilita, tempo previsto per la risalita. Calcolando sempre una percentuale di margine per l’imprevisto: la temperatura dell’acqua, le correnti, la visibilità, l’emotività, la stanchezza mentale o fisica, le difficoltà di un compagno. Il primo corso per il brevetto, nel 1978 (Fias), richiedeva serietà, credo, studio e disciplina. Nove mesi di assidua presenza, tre sere per ogni settimana, due di pratica in piscina, una (obbligatoria) sulla medicina iperbarica, che a Milano si svolgeva tutti i lunedì in via Metastasio. Le lezioni in piscina erano martellanti, severe, sei mesi in cui delle bombole non vedevi nemmeno l’ombra, 24 serate passate in ammollo ad acquisire la massima acquaticità, la massima tecnica dell’apnea, l’uso perfetto della respirazione e del diaframma, alla ricerca della capovolta perfetta, dello svuotamento della maschera con relativa vestizione in ginocchio a contatto con il fondo, a -5 metri, sempre in apnea, sempre in assetto costante. Dopo sei mesi di cultura iperbarica e di brevetto di apnea, passavi d’ufficio al brevetto Ara (autorespiratore ad aria). Tre mesi in cui gli erogatori e le bombole te li portavi anche al cinema e a letto. Passati gli esami in piscina, verso marzo accedevi a quelli in mare. Niente di che, rispetto alla piscina, cambiavano le profondità e il bruciore, dal cloro al sale dell’acqua di mare, tranne l’ultimo esercizio, la risalita di emergenza dai -20 metri. Più impegnativa a dirla che a farla. Esercizio semplice semplice, che ho imparato e che spesso dopo 2mila immersioni riprovo dinnanzi a istruttori da villaggio, sconcertati, adirati, increduli. Istruttori che appartengono alla nuova mentalità, quella americana e internazionale che detiene il business del diving. Brevetti che si concedono in 6 giorni, in 15 giorni di vacanza puoi prenderne quattro, cinque e più. Uomini e donne che vanno sott’acqua addobbati come alberi di natale, con mute, maschere e pinne dai colori improbabili, con al polso computer da Guerre Stellari, che sui fondali si muovono come elefanti e dopo 40 minuti a -30 metri hanno la bombola che sembra un’arancia spremuta. Contenti loro…

Ma il bello è estrarre la vecchia borsa, blu maculata per le chiazze del sale: è la borsa dei ricordi, tra sagole annodate, fiocine, coltelli, palloncini di segnalazione e le maschere, tutte, tante, dalla vecchia Pinocchio alle ultime Mares. Quando le indossi senti il profumo del mare che ti entra nelle narici, sale su, fino al cervello, per poi passare dagli alveoli ai polmoni, al sangue, sino al cuore. Quando lo sento mi perdo nel tempo. Come dimenticare le prime immersioni agli spiaggioni, sotto Montemarcello, alla Palmaria, a Bergeggi, alla Gallinara, a Capo Mele. O la prima volta che scesi sotto i 52 metri, con una decompressione di 24 minuti (1’ a -9 metri, 5’ a -6, e 17’ a -3); il primo viaggio a Sharm nel ’77; la prima volta alle Maldive nel ’78; agli amici con cui ho condiviso il tempo sott’acqua, in barca, a tavola… Come dimenticare le immersioni alle Maldive con quel pazzo, adorabile mostro marino di Scipio, o l’abilità da pipistrello di Marco Brusdraghi tra i bui cunicoli e grotte di Capo Caccia. Delle bellissime immersioni fatte alla secca di Levante, al centro del Mare Nostrum, nell’amata Lampedusa, così come quelle fatte di notte per vedere il passaggio delle ricciole e dei calamari, sempre accompagnato dal colto e vulcanico sabaudo Roberto Merlo.

Alle immersioni fatte con Pierfranco Dilenge, da Cuba a Ustica, isola a me molto cara perché nel 1982 Gente Viaggi, nella persona del suo direttore Alberto Orefice, il ministro della Marina mercantile Calogero Mannino, Fulco Pratesi presidente del Wwf e il professor Fausto Giaccone dell’Università di biologia di Palermo furono i promotori del Parco subacqueo. Visto il mio interesse e amore per il mare, fui scelto dal direttore per seguire l’evoluzione del progetto Parco dal 1981 al 1984. Fu un’esperienza indimenticabile. Per festeggiare l’inaugurazione del Parco marino mi inventai un libretto (costumabile!) di 12×8 cm stampato in serigrafia, con 24 tavole raffiguranti pesci, molluschi, cefalopodi, actinarie, ciascuna con la relativa descrizione scientifica, disegnate da Fulco Pratesi. Una guida da portare con sé con maschera e boccaglio per conoscere, identificare e capire. Fu allegato e distribuito con Gente Viaggi nel 1982. Quegli anni frequentai molti biologi e ricercatori marini, oltre che grandi subacquei, da Mayol a Maiorca, da Pipin Ferreras a Paolo Curto. In quegli anni si rafforzò in me l’amore per il mondo marino: smisi di cacciare e cominciai a fotografare, leggere, studiare, approfondire la mia cultura sulla flora e la fauna degli oceani. Dilenge, che nel frattempo vinse il campionato mondiale di fotosub, conosciuta la mia professione di art director e visto il mio amore per il mare, mi inserì nelle giurie di molti concorsi di fotografia subacquea, da Alghero Mare al trofeo Isotta di Lazise, dal concorso internazionale fotosub di Lugano a quello di Trinidad.

Viaggi, aerei, alberghi, immersioni, speleologia, mete e mari sconosciuti, fu così che la passione si fuse con la mia professione. Cambiò il mio approccio al mare, cominciai a conoscerlo, studiarlo, apprezzarlo, rispettarlo come un bene prezioso. Iniziai a viaggiare cercando immersione dopo immersione di conoscere da vicino gli abitanti di questo universo sconosciuto, la loro spietata disciplina che lo regolamenta, i precari equilibri di un delicato e sensibile ecosistema messo sempre più a dura prova da un animale criminale: l’uomo. Mi sono immerso con mio figlio Alessandro tra squadriglie di grandi squali balena nel Golfo del Messico, o allo scoglio di Round Island a nord delle Mauritius, tra centinaia di squali pisolanti in grotta, tra rocce e massi giganti, enormi come le cernie che popolano i fondali di Lavezzi, e nelle calde acque dell’Oceano Indiano in compagnia di elegantissime mante, grandi come idrovolanti.

Ma coloro che mi hanno davvero rapito mente e cuore sono i cefalopodi, dalla seppia al calamaro, dal polpo sino all’enteroctopus dofleini, il polpo gigante del nord Pacifico. Animali unici, sorprendenti, fantastici. Ho letto su di loro libri e libri, ho passato in apnea con loro ore e ore, per studiarli da vicino, per sperimentare l’approccio, il contatto, la familiarità; ho fatto immersioni a -10 metri per più di tre ore giocando a fare la loro conoscenza. Dopo anni e anni ci sono riuscito: oggi quando li trovo mi comporto con loro esattamente come tutti noi ci comportiamo con i micetti. Le prime presentazioni con i polpi le collaudai con i miei figli: Cecilia, sott’acqua schizzinosa e sospettosa, e Alessandro, più guascone e da piccolo soprannominato Attila.

All’epoca avevamo una casa a Moneglia. Al mattino, verso le 7.00, tutti con muta, maschera e pinne andavamo in scogliera, acqua non molto profonda e via, a fare amicizia con loro, trovare e mappare le tane, coccolarli e portargli del cibo e giocare un po’ con loro, ma soprattutto osservarli, contare i tentacoli, vedere come respirano, come variano e modificano l’aspetto e le cromie, riconoscere i maschi e le femmine, come depongono e curano le uova (la femmina sino allo stremo delle forze), capire le loro ferite, se causate da incontri con murene o con aragoste o se da una fiocinata dell’homo erectus. Ma la «laurea» della soddisfazione fu quando andai a incontrare il polpo gigante del Pacifico a nord di Vancouver. Lasciata la città, dopo un traghetto e un paio d’ore di pulmino arrivammo in un porticciolo da film: l’aria era bella frizzante, in compenso l’acqua, pesante e opaca, era più vicina ai 5 gradi che ai 10. Alaska pura, mancavano solo gli orsi e i salmoni.

Indossata la vecchia Technisub, allora non si usavano le stagne, (in verità non le ho mai usate), prendemmo il largo su di un battello super-attrezzato in compagnia di due Ranger sub del Parco marino (uno era un biologo marino). Conoscevano a menadito la costa, gli anfratti. Appena scesi in acqua, arrivati alla quota di -25, sotto due massi circondati da alghe tipo sequoie ecco spuntare due occhi grandi come lampadine, montate su un testone rossastro, grande come il mio corpetto. Bellissimo! Mi dirigo verso di lui, un Ranger mi ferma, gli faccio il solito gesto dell’ok, lui con gli occhi annuisce, mi lascia fare. Tolgo la mano dalla grande lampada che impugnavo, il guanto in neoprene è bello caldo, e prima che si raffreddi inizio a sfiorare il suo testone esattamente in mezzo agli occhi (come faccio a Moneglia con i fratelli più piccoli).

Lui per un momento si ritrae, si copre la testa con un tentacolo come per difendersi. Io non arretro, insisto, lui diventa rosso dalla timidezza, sente il calore, gli piace, si scioglie, si lascia andare a moine da grande micione. Il biologo attira la mia attenzione: sono talmente concentrato che mi dimentico anche di respirare, giro solo gli occhi dietro la maschera, per rimanere in contatto con il gigante buono, vedo il ranger che mi applaude, gli strizzo l’occhio, capisco che il polpo inizia a irrigidirsi e a star sulle sue, cambio mano, calda grazie ai fari ricomincio a coccolarlo. Bellissimo si adagia sulla roccia e comincia ad accarezzarmi con i suoi tentacoli, mi sfiora, arretra, torna a tastarmi mentre io lo accarezzo. Ormai sono uno di loro. Così ho imparato a conoscere il mare, a volergli bene, a rispettarlo, amarlo… da dentro. Osservando e rendendomi conto della metamorfosi che avviene anno dopo anno.

Ogni volta che mi immergo con razionalità e sensibilità prendo nota e atto dei mutamenti, dei cambiamenti dei mari, in Sicilia come in Sardegna, in Liguria come alle Maldive. Negli ultimi anni, nelle serate post regata organizzate dallo Yacht Club Costa Smeralda e da Rolex, ho avuto il piacere di essere a tavola accanto alla Principessa Zahra Aga Khan e con lei conversare e condividere le esperienze in mare, l’amore per le immersioni. Quando ho saputo del suo impegno nell’organizzazione dell’One Ocean Forum, evento che porterà in Italia il cuore di un dibattito sulla tutela degli ecosistemi, mi è sembrato naturale credere e seguire il suo pensiero, dedicando questo numero di Arbiter a tutte le persone (non solo a quelle di buon senso…) che affolleranno quest’estate le nostre coste e quelle di tutti gli oceani, per sensibilizzare e impegnarsi a fare tre passi avanti verso una presa di coscienza collettiva di sostenibilità, responsabilità e cultura. Per tracciare e programmare una nuova rotta da lasciare ai nostri figli: un mare sano e rigoglioso, dai mille colori, come quello che avevamo conosciuto noi da ragazzi. Ogni volta che mettete la testa sott’acqua, pensateci: quel tesoro è vostro!

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