Ultimo rappresentante di sette generazioni di vigneron, nasce a Vertus, 20 km a sud di épernay, nel 1954, l’anno della fine della guerra d’Indocina. «L’Asia», dirà anni dopo e, precisamente, il 16 ottobre 2018 dall’interno della Torre Allianz di Milano, «è la base di lancio; il sogno di una comunità utopica e di una startup che coinvolgerà il mondo coniugando le passioni di una vita». Si riferisce al suo futuro, Richard Geoffroy, e alla sua nuova vita dopo 28 anni come chef de cave di Dom Pérignon. Non c’è malinconia nei suoi occhi ma lo stesso, medesimo profondo bagliore: una intima, atavica commozione che poco o nulla sembra avere a che fare con le cose di questo mondo. Quel che sappiamo, di lui, pertiene già al regno della storia. Non quella dei libri di testo ma quella di un territorio, la Champagne, ove s’è consumata, nel 1982, la prima tra le identificazioni: quella dell’uomo col suo territorio, la cultura si fonde, finalmente, con la natura, polverizzando un’ancestrale dicotomia. Ma non solo. Perché un uomo di siffatta natura è pur spesso anche un filantropo: così, nella Francia rurale dell’immediato dopoguerra, invece di scegliere la Champagne il giovanissimo Richard Geoffroy si iscrive a Medicina, una scelta dettata non tanto dall’irrequietezza delle stelle danzanti di nietzschiana memoria quanto dal suo amore per la conoscenza e, come detto, per l’uomo stesso. È intelligente, brillante e illuminato al punto da ottenere, perfino, il dottorato. «Era come se tentassi di ribellarmi.

Cartoline-ricordo con Richard Geoffroy: è il 2011 e lo chef de cave alza un calice di Dom Pérignon con Franz Botré e Carlo Cracco nel suo ristorante.
Questi studi, certo, mi hanno arricchito, hanno aperto la mia mente e hanno giovato alla mia formazione, ma io appartenevo a quel territorio… che mi chiamava: lì c’era la mia identità e, così, mi sono rimesso a studiare, stavolta, Enologia». Così, nemmeno due anni dopo il nostro si diploma all’École nationale d’Œnologie di Reims. Era il 1984, una delle annate peggiori non solo in Champagne ma di tutta l’ecumene vinifera, del resto, solo un anno zero poteva suggellare il suo ingresso a Moët&Chandon. Inizialmente come consulente tecnico, poi, «cominciai naturalmente ad affiancare Dominique Foulon, l’allora chef de cave della Maison, nelle scelte di ogni giorno».
Ma la stella aveva ancora sete di conoscenza e, così, non si fa mancare neppure qualche esperienza in California, in Australia e in Nuova Zelanda. «Al mio ritorno, inaspettatamente, Foulon mi vuole ancora al suo fianco», e crediamo si tratti di una chiamata in piena regola: il mito aveva bisogno di un nuovo eroe e la Champagne, dopo 316 anni dall’insediamento di quel Dom (Pierre) Pérignon nell’Abbazia di Hautvillers, di un nuovo santo. «Foulon mi affida così la cuvée de prestige che è la mia genesi fino a quando, nel 1996, divento io lo chef de cave di Dom Pérignon». Ed è qui che, probabilmente, avviene la prima mimesis intesa nel senso platonico di , ovvero l’assimilazione. Quanto, infatti, un uomo e la sua opera possono coincidere?
In questo caso, però, c’è molto di più: «È stato un rapporto intenso, di scambio continuo e reciproco. Sono stati anni di giocosità, piacevolezza, divertimento e libertà. La libertà di guardare sempre avanti, una tensione continua verso il futuro e la necessità di reinventarsi sempre, sempre nel rispetto delle regole». A sentirlo parlare è come se avesse ragione, dopotutto, quel folle di Hans-Georg Gadamer il quale, beatamente, sosteneva che se il linguaggio fosse per l’uomo il primo tra gli irretimenti, la sua libertà consisterebbe proprio nelle sue regole, nel loro rispetto, nelle forzature e nelle iperboli delle stesse: contrazioni che lo stesso Geoffroy opera, dal 2000, sui suoi Œnothèque che ha imparato a interpretare al punto da decifrarne la logica, che altro non è se non la parabola temporale di loro massima espressione: nascono così le Plénitudes e, con esse, un altro capitolo del mito odierno di Dom Pérignon.

Richard Geoffroy con Andrea Grignaffini all’abbazia di Hautvillers per una degustazione di Œnothèque, nel 2008. Nella pagina a fianco, un suo ritratto molto espressivo che denota come sempre aplomb e assoluta imperscrutabilità.
A chiedergli, oggi, cosa sia, dopotutto, lo Champagne, lui ti risponde con lo stesso aplomb imperscrutabile di sempre, che «si tratta di stabilire un archetipo. L’archetipo, per me, è una forma di rettitudine, di rigore, di elevazione», ammette, «a livello percettivo, qualcosa di netto e tagliente». Semplicemente, una sublimazione interpretata ogni annata in maniera radicalmente differente perché le variabili, in natura, sono infinite. E se questo è vero per ogni manufatto dell’uomo legato con gli assi cartesiani dello spazio e del tempo, ciò riguarda a maggior ragione un’annata come la 2008 che, guarda caso, è anche l’ultima sotto la sua egida.
Una parabola tutta personale e, per certi aspetti, au contraire se pensiamo che è uscita dopo il 2009, altro fatto quasi unico nella storia della Maison.