Ogni anno che passa e ogni volta che arriva luglio, mi succede sempre la stessa cosa. Improvvisamente, torno bambino. Voglio dire, più di quello che sono abitualmente. Non certo perché mi concedo la libertà e la licenza di indossare (al mare!) pantaloni corti, bermuda o il costume da bagno, no, non per quello. Tanto meno per la voglia di tornare a giocare e correre con le macchinine, qualunque esse siano, su qualunque pista, l’importante è che pesino il meno possibile, che facciano esprimere e cantare al massimo (privi di qualsiasi forma digitale) tutta la cavalleria del motore. E neppure per tornare a giocare sott’acqua tra i miei amati pesciolini. Non so perché, ma improvvisamente, con l’arrivo dell’estate, sento tutti i sensi esplodere dentro di me. Li sento lievitare e trasformarsi in una forza incontrollabile, in una potenza che anno dopo anno riesce sempre a stupirmi, farmi innamorare dell’estate, del sole e della luce. Avete presente Hulk, o Dr. Jekyill e Mr. Hyde? Ecco, siamo lì! Cambio il modo di vedere il sole, la luce, di annusare l’aria, di percepire i colori, di gustare una dopo l’altra succulente ciliegie, tenendo tra le mani la setosa capa dell’ultimo cubano appena arrivato. Così, giorno dopo giorno, ritrovando il piacere e la voglia di vivere sempre più in una dimensione analogica, sotto una nuova luce oggi come 60 anni fa.
Ripenso ai giorni inappellabili della mia infanzia, quando finita la scuola andavo all’oratorio, poi in colonia al mare e in montagna grazie alla Caritas Ambrosiana e ai pochi, ma intensi giorni trascorsi con mia madre a Salò. Ripenso a quanto poco bastava per essere immensamente ricco, e felice. Viaggiavamo in pullman o in treno. Non c’era la televisione, semmai la radio. Riuscivo a leggere quando e dove volevo anche cinque libri al mese. Spesso, sotto un piccolo albero di pesco, tra una grattata di zucca e una di chiappa, lottando pagina dopo pagina per difendermi dalle formiche. Non pativo il caldo né il sole, quel sole di colore rosso tendente all’ambrato che dipingeva poco alla volta il mio corpo. Rimanevo ore e ore in silenzio a contemplare lo spazio, l’aria, il mare, il lago, la montagna, il cielo, in compagnia delle cicale, godendomi ogni momento. Anche quando con i ragazzi del cortile eravamo precettati per fabbricare palle di carta, per l’inverno. Momenti, profumi e cromie impresse dalla luce della memoria, che rimarranno indelebili. Raccoglievamo tutti i giornali della via, della corte, tantissimi, in pacchi e pacchi di carta straccia. Poi, al pomeriggio, nel grande fienile, riempivamo dei grandi mastelli d’acqua gelida, dove immergevamo i vecchi giornali; tra uno scherzo, una storia e un gavettone, aspettavamo che tutto macerasse. Poi con le mani raccoglievamo e amalgamavo la carta bagnata sino a formare tante palle (come facevamo d’inverno con la neve…), cercando di strizzarle il più possibile. Quindi, come tante munizioni le si metteva a terra sul legno ad asciugare, una dopo l’altra, cento, trecento, mille. Ubbidienti, avevamo ripulito le case dalla carta, riciclandola per l’utilità di tutti gli abitanti e residenti della corte. Sì, perché a fine estate nel fienile c’erano le «munizioni» per il fuoco, del camino. Quelle palle facevano da braciere per accendere e alimentare il fuoco nel camino per tutto l’inverno. Quel fuoco che ci avrebbe scaldato e illuminato nei mesi bui, freddi, senza luce. Nel frattempo ci eravamo divertiti, rinfrescandoci mani e piedi per ore senza accorgerci della calura estiva. Ammetto, non la sentivo, come non sentivo il sudore. L’unica cosa che sentivo era la voce di mia madre che mi richiamava per il bagno prima di cena…
Vedere oggi, nelle hall o nelle lounge degli alberghi, o degli aeroporti, ciurme di bambini tra i 6 e i 12 anni sdraiati, scomposti, buttati lì, così, su poltrone o divani, come fossero scialli di mamma, sprofondati e immersi nei loro tablet, svogliati, insoddisfatti, che si lamentano a voce alta di tutto e tutti e, spesso, maleducati, beh, ammetto che mi fa molta pena. I loro genitori. Mancano di quella luce che illuminava il nostro cammino, che ci fece scoprire tutti, o quasi tutti, gli angoli in ombra della nostra vita e della società. Vi confesso che più il tempo passa, più il sole e la luce mi danno fastidio. Sarà l’età. Ma il fatto che mi rende felice, è che più il tempo passa, più mi ritrovo affamato di Luce. Di quella luce con la L maiuscola, che proviene dall’alto del Cielo. Perché l’eccesso di luce (con la l minuscola) fa male agli occhi e al cervello. La vita si annebbia, si perde lucidità. Per inseguire la Luce bisogna, talvolta, chiuderli gli occhi, guardare dentro di sé. Cercare quell’attimo di buio che ci illumina, quel percorso analogico che ci fa riflettere su dogmi, fedi, religioni, spiritualità. Tutte le grandi religioni hanno come protagonista la luce, simbolo del divino, fiammella di divinità che alberga in tutti gli uomini. L’ebraismo, il cristianesimo, il buddhismo, anche l’islam oggi sprofondato nel buio, passano attraverso il prisma della luce. Seguendo questo percorso mi sono soffermato sulla modernità del profeta Zarathustra, il «figlio della luce», che ha predicato il dovere di vivere ricercando il bene, fondatore di una fede morale che porta all’armonia con il creato. Rispetto a religioni che predicano lo sterminio del «nemico», una voce fuori dal coro, che viene proprio da quella terra, oggi l’Iran, dove proprio le cronache di questi giorni ci dicono stia tornando a brillare la luce della ragione, del dialogo e, dico io, del buonsenso. Una coincidenza che mi ha colpito. Illuminante. Ho trasferito questi miei pensieri a Matteo Negri, l’artista che nel buio di una notte ha tramutato una riflessione sulla luce in materia per i vostri occhi, per le vostre riflessioni, e ha creato la copertina di questo numero. L’abbiamo realizzata sperando che proprio nell’attimo in cui la guardate un raggio di sole faccia rimbalzare sul vostro volto un colpo di Luce.
