Aprile 2020

Apr 06 2020

Alle sette di ogni mattina con il mio fido Baloon, un labrador biondo di 15 mesi, un vero terremoto, vado ai giardini Mario Pagano per una bella passeggiata. Quaranta minuti da solo, a contatto e immerso nella natura meneghina. Giorno dopo giorno, lungo il solito percorso, osservo le mutazioni, la crescita dell’erba, lo sbocciare dei fiori sugli alberi, l’intensificarsi dei profumi delle aiuole e della presenza degli scoiattoli, sempre più temerari. A farmi da apripista, con il suo naso sniffante incollato all’erba, terremoto Baloon. Normalmente, sono molte le persone che incontro. Madri e padri che accompagnano i figli a scuola, alcuni vanno in ufficio, molti i giovani ancora verso la scuola, poi altri come me, con il cane al guinzaglio in caccia del «metro giusto». È impressionante come il 95% sia con il cellulare attaccato all’orecchio e lo sguardo fisso nel vuoto. Chissà cosa cavolo guardano? Per la mia libertà lo lascio a casa, prima delle 09.30 non lo accendo mai. Ogni volta che mi trovo con amici o colleghi a parlare dell’uso esagerato che le persone fanno dello smartphone, porto sempre con orgoglio il mio esempio. Negli ultimi cinque anni ho ridotto l’uso di quel magnifico oggetto di grande tecnologia, per la precisione del 79%, facendolo diventare un bene prezioso a mio servizio. Molti mi domandano come faccio, come posso gestire quattro giornali, le pubbliche relazioni e la pubblicità usando così poco il cellulare. Bene, la mia risposta è da anni sempre la stessa: «Vedete, se fossi un chirurgo, come il caro Alberto, o un anestesista rianimatore, come il vecchio amico dottor “Fisch”, o come Maris, Lucio e tutti i medici d’Italia, sono certo che per dovere, credo, responsabilità e professionalità vivrei come loro, con il cellulare sempre attivo, pronto alla risposta, ogni ora della notte e del giorno. Perché loro fanno la differenza. Loro salvano la vita alle persone, oggi più che mai. Io non salvo un bel niente. Tutt’al più posso affascinare e intrigare il tempo dei Signori lettori della tribù di Arbiter attraverso l’emozione e la qualità che eventualmente riesco a donare».

Ho il massimo rispetto per questi camici bianchi o verdi, oggi più che mai. Non è per caso che tutte le volte che qualcuno mi chiama dottore, per presentarmi o per salutarmi, sorrido, ringrazio e dico che io non sono un dottore. Primo perché non sono un laureato, secondo perché i dottori, per me, sono quelli, per l’appunto, con il camice bianco o verde. Sono quelli che hanno studiato pensando al prossimo, con spirito di sacrificio e abnegazione, prima di pensare a fare i «dané». Professionisti che per anni, forse, sono stati solo delle comparse, ma che al momento opportuno si sono tramutati in primi attori, pronti e preparati a recitare con passione una parte importante e vitale sul palcoscenico della vita della Nazione. Cari Signori Dottori, m’inchino e… Chapeau! Ed è proprio pensando alla Nazione che con l’amico Ugo Cilento abbiamo deciso di riprendere una delle sue cravatte Limited Edition, create per i 150 anni dell’Unità d’Italia, di riprodurla e riproporla come Edizione Limitata a tutti i lettori. Perché mai come in questo momento storico, l’Italia deve trovare la forza di rimanere Unita. Per ogni cravatta venduta, Arbiter e M. Cilento & F.llo devolveranno 50 euro alla Siaarti, Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva. Il suo motto è «Pro vita contra dolorem semper».

Non è poi un caso che la copertina di questo numero sia dedicata a Raffaello Sanzio, celebrando i 500 anni dalla sua scomparsa. Un vero Arbiter Elegantiarum del Rinascimento italiano. Giovane talento, diventato in pochissimo tempo un grande pittore, senza dubbi il più grande. Genio che amava la bellezza, l’eleganza e si nutriva di due passioni: l’arte e le donne. L’opera che vedete in copertina è stata realizzata a Bruxelles da Alessandro Scarabello. Ha preso spunto dallo stendardo della santissima Trinità, dipinto dal giovanissimo Raffaello nel 1499 per Città di Castello, all’indomani della fine di una pestilenza. Immagine significativa, con un evidente stretto dialogo con i nostri giorni, sia per la sua origine sia per la scena che rappresenta. Quello che è successo e sta accadendo in Italia ci lascerà addosso indelebili cicatrici. Il presidente Sergio Mattarella, come numero uno della Scuderia Italia, dovrebbe ordinare a tutti: «Box! Box! Box!». Sì, tutti dovrebbero fermarsi ai box, perché la macchina Italia non funziona più. È tutto da riconsiderare, riprogettare, rivedere, ricomporre. Partendo dalle cose più importanti per una nazione seria, che guarda al futuro: in primis la sanità e la scuola, per decenni lasciate alla deriva! Per poi passare, con interventi profondi e drastici, alla classe politica, mai così scarsa, incolta, incompetente. Non so voi, ma per me è inaccettabile e mortificante accettare passivamente di essere governato da soggetti che prima di fare il ministro della Repubblica Italiana erano disc jockey, vendevano bibite allo stadio o facevano il giullare al Grande Fratello. O, peggio ancora, da chi pontifica cosa fare e come gestire la situazione drammatica del Paese, ma che in verità, nella sua vita, ha solo fatto l’insegnante e non ha mai amministrato nulla, nemmeno un supermercato. È veramente un governo dalle radici «sinistrose», in tutti i sensi. Vivono e si nutrono solo di antifascismo. Da settembre 2019 a gennaio 2020, anziché pavoneggiarsi, litigare tra loro giocando a fare i primi della classe a Bruxelles (senza minimamente pensare al bene degli italiani), come sport preferivano impegnarsi a vedere e additare fascisti e nazionalisti dietro ogni angolo dell’Italia. La cosa curiosa è che, se si va nel sito del Ministero della Salute, nell’area tematica delle malattie infettive/archivio banche dati, ci sono tanti comunicati del 2019 rigorosamente numerati che, a partire da luglio, poi settembre, ottobre e dicembre lampeggiano come tanti diodi di allarme. Per esempio, il n. 69 del 18/07/2019 si chiama Sindrome respiratoria Medio-Orientale da Coronavirus (Mers-CoV) – Regno dell’Arabia Saudita. 16 luglio 2019, ma le segnalazioni venivano effettuate sin da febbraio, dopodiché da luglio diventano più fitte, ravvicinate, numerose. Secondo voi che cosa vuol dire? Certamente non sarà questo maledetto Covid-19, ma visto che è comunque un coronavirus simile a quello della Sars che ha già un tasso di letalità pari al 10% e che questo Mers-CoV già più volte segnalato è un coronavirus con un tasso di letalità superiore al 34%, considerate le ripetute segnalazioni fatte nei vari comunicati, tenendo conto di quanti italiani negli ultimi sei mesi sono andati da quelle parti (senza dimenticare quanti cinesi lavorano da quelle parti!), per non sapere né leggere né scrivere, caro ministro vuoi darti una mossa! Qualche precauzione da prendere? No? Questo sino al comunicato n. 6 del 13/01/2020, che titola Nuovo Coronavirus-Cina 12 gennaio 2020. I comunicati poi seguono sulla Corea e sul Giappone, sino ad arrivare al disastro di questi ultimi giorni, settimane, mesi. È gente d’oggi, hanno paura della morte e non sanno, né conoscono, l’audacia!

Ma anziché giocare ai partigiani e a fare gli antifascisti, o pettinare le bambole, questi signori perché non hanno mai preso alcuna precauzione? Perché non hanno tutelato la salute degli italiani? È proprio vero che «il peggior prodotto del fascismo è l’antifascismo». Il primo a intuirlo e capirlo, prima e dopo il 1945, fu proprio Amadeo Bordiga. Lui, che a Livorno con Antonio Gramsci, Egidio Gennari, Antonio Graziadei e Nicola Bombacci fondò il Partito comunista d’Italia. Non si fermò mai, fu sempre per la rivoluzione, mai per l’antifascismo. Questo governo «sinistroso», devo ammetterlo, mi ha fatto rimpiangere «il bullo» e la sua banda: Renzi (così come Calenda) almeno era preparato, le cose sapeva vederle e anticiparle, gestirle con intelligenza e autorevolezza. Guardo poi alla magistratura e alla giustizia, ormai alla mercé e succubi di questa classe politica. Per proseguire con fermezza e rivedere le regole etiche che determinano il mondo della finanza e delle banche. Dovremmo tutti fare una sosta ai box e recitare dei grandi mea culpa. Partendo dalla mia categoria, quella dei giornalisti, rea di aver fatto un gran caos, dando spesso notizie confuse, contrastanti, approssimative. Per dirla tutta, sarebbe anche il momento kairós di stracciare e riscrivere ex novo il contratto nazionale della categoria, ormai ridicolo, insostenibile e fuori dai tempi e dal mondo. Cosa aspettano i grandi gruppi editoriali a rimettere tutto in discussione, che tutti i giornali implodano come le Torri Gemelle l’11 settembre? Lo dico perché amo ciò che faccio, che non è lavorare, è tempo che passo a fare qualcosa che svolgo con passione e devozione, perché credo che l’informazione sia per tutti un bene prezioso che cura, nutre e ispira la razza umana. Da correggere e registrare anche l’educazione e la disciplina di molti italiani, che pensano sempre di fare i furbi e quello che vogliono. Soprattutto i giovani, senza orario e bandiera. Riguardate con attenzione i filmati del sabato della grande fuga dalle città del nord, l’80% erano studenti incoscienti che, rotte le righe della loro facoltà, tornavano (stupidamente) a casa da mammà. Guardando quelle immagini mi sembra di rivedere quelle dell’8 settembre del ’43. A casa, a casa, tutti a casa, la guerra è finita. Questa smania del miraggio italiano della casa non l’ho mai capita. A casa a fare che cosa? Non sapevano che invece il peggio della guerra doveva ancora arrivare. Una volta a casa, come tante sardine hanno contestato tutto e tutti: i genitori, i valori, le regole, il Paese, le tradizioni, la società. E allora? E allora non se ne può più, via come tanti scappati di casa!

Quella scena mi ha fatto scaturire l’idea dell’inserto che troverete a pagina 99, una selezione di 32 pagine di Arbiter dal 1940 al 1942, stampate su una carta diversa, per ricordare quegli anni di entusiasmo, ma anche tristi, drammatici, vissuti con estrema difficoltà da noi italiani. Dal ’40 le persone vivevano, lavoravano e morivano sotto i primi bombardamenti. Quando poi arrivavano a casa, trovavano le difficoltà del vivere, di sfamarsi, di avere un tetto integro, di reagire alle lettere che lo Stato maggiore inviava. Lettere che pesavano come macigni, perché dichiaravano la scomparsa di un figlio, di un marito, di un padre. Ma non c’era il tempo di piangere, si doveva scappare verso il rifugio perché iniziavano i bombardamenti. Dopo due anni di guerra, tra gli italiani in uniforme caduti in Grecia, Albania, Russia, sulle Alpi orientali, in Africa del nord e in quella orientale, e quelli civili caduti nei bombardamenti su Milano, Torino, Genova, La Spezia, Livorno, i morti erano ormai più di 200mila. Eppure la gente viveva, lavorava, si divertiva, si amava. Quando il marito e i figli partivano, era un distacco che poteva durare un anno, forse tre, spesso erano addii, per sempre. Era un’altra generazione, aveva alle spalle un’altra famiglia, un’altra storia. I ragazzi e le ragazze dell’epoca sono i nostri nonni e bisnonni, sono oggi i più deboli, i più vulnerabili. Questo numero, così come l’inserto, lo dedico a loro, a quelli che oggi hanno più di 80 anni, come esempio ai giovani di oggi, per far capire che razza di gente eravamo noi, italiani.

Milano Su Misura Abbiamo resistito fino all’ultimo, ma alla fine, l’emergenza sanitaria legata al coronavirus, che ha portato l’Italia a fermarsi, ci ha costretti a rimandare l’appuntamento con Milano Su Misura e il Trofeo Arbiter. Sarà in settembre. In attesa di comunicare le nuove date, voglio ringraziare i Maestri che hanno creduto nell’iniziativa e hanno scelto di partecipare. Per il pubblico, il Trofeo Arbiter sarà una sfilata, una competizione, uno spettacolo, un bosco dove poter andare a caccia di preziose conoscenze tecniche e personali. Per i Sarti sarà anche qualcosa in più. L’occasione per parlare al mondo col loro linguaggio di ago e filo e non con quello digitale, un luogo di confronto sui temi caldi, un’assemblea di capi guerrieri in cui poter parlare con franchezza e a persone competenti. I Maestri che avranno partecipato sentiranno che tutti hanno fatto e dato il massimo possibile. Alcuni di quelli che hanno rinunciato all’impresa la minimizzeranno, perché tra noi umani è uso comune che chi resta a casa critichi chi combatte. Altri, invece, sentiranno che quel viaggio fa per loro e così saliranno anch’essi a bordo. Noi ne saremo lieti, anzi manderemo la nave in cantiere affinché, quando riprenderà il mare, sia ancora più spaziosa, veloce e ardimentosa.

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