Appartengo, per fortuna, a quella generazione cresciuta con, e attraverso, le passioni. Da bambino mi piaceva tantissimo giocare, sempre, soprattutto con i soldatini. Avevo un vero e proprio esercito di bellissimi guerrieri romani, più una legione di fedelissimi: erano i miei gloriosi legionari Veneria della Xa. Li ho portati ovunque, al mare, al lago, in montagna, attraverso tutti i continenti ad affrontare mille conflitti. Al mio comando hanno combattuto, e spesso vinto, guerre e battaglie memorabili, misurandosi quotidianamente contro i Barbari e i Britanni. Ma il loro coraggio, nel tempo, li ha portati a confrontarsi e imporsi anche su eserciti tecnicamente più armati e meglio equipaggiati, come quando a Marengo sconfiggemmo le truppe di Napoleone. Ma non ci fermammo. La grande passione per l’arte della guerra, per l’onore, per la patria, unita al coraggio e alla maestria nella strategia, mi portò a condurli sino all’ultima grande battaglia: El Alamein. Molti, dopo così tante campagne, arrivarono a pezzi, scoloriti, chi senza un braccio, chi senza una gamba; alcuni avevano perso lo scudo, altri non si reggevano più sul piedistallo, da tanto era consumato. Nascosti dalle tenebre, affiancarono in silenzio i ragazzi della Folgore, e uniti sconfissero le truppe del generale Montgomery nel deserto egiziano. Il prezzo della vittoria fu pesante: solo in 15 ci salvammo. Tutto il mondo ne parlò. Ricordo che Tito Stagno dedicò l’apertura del Telegiornale a questa sensazionale notizia. L’immagine è ancora viva in me: io, Franz il Barbaro, ora Cesare, che innalzo urlando verso il cielo l’Aquila e la daga della Xa, circondato dagli eroi della Folgore. Mentre Montgomery, sconfitto, in ginocchio ai miei piedi, chiedeva pietà. Dopo quella battaglia, gli Invictus furono da me congedati. Alcuni migrarono in soffitta, altri in cantina, molti furono quelli che si persero nel tempo.
Nei giorni in cui non ero impegnato in battaglie epiche, mi piaceva giocare con le macchinine. Avevo un bellissimo garage in legno, modello alveare, azzurro, disposto su quattro o forse cinque piani, con un portone che lo chiudeva e le preservava come fosse una sorta di grande valigia. All’interno, 40 vetture ordinatamente parcheggiate. Macchine di ogni tipo: mi piacevano soprattutto le Alfa Romeo, tutte, dai modelli da turismo a quelli da competizione, dai Prototipi sino alle storiche Formula Uno. Amavo pulirle, elaborarle, dipingerle, assettarle, personalizzarle, ma soprattutto farle correre. Da Monza a Daytona, da Le Mans a Sebring. Mi capitava anche di vincere, ci mancherebbe, ma erano più le volte che rimanevo coinvolto in incidenti. Le macchine venivano martellate a dovere, su una scena che componevo minuziosamente, quindi venivano cosparse di alcool e date al fuoco. Una gran fiammata avvolgeva la scena dell’incidente, intervenivano prontamente i figuranti che rappresentavano i pompieri, i commissari, i poliziotti; arrivavano le prime ambulanze, la scena era perfetta. A questo punto non mi restava che impugnare la mia Polaroid Swinger 20, scegliere velocemente le prospettive di ripresa, di fronte, laterale, sopra, dal tre-quarti, e scattare, scattare immagini uniche. A fiamme spente il reportage era pronto. Non mi restava che ripulire la scena dell’incidente dai carboncini rimasti, ripulire con cura (!) in modo che mia madre non vedesse né si accorgesse di nulla, e quindi sedermi a terra a godere delle immagini realizzate. Beh, anche riguardandole 53 anni dopo devo ammettere che erano davvero dei bei servizi in bianco e nero.
Le polaroid le tenevo nascoste in un libro di Michael Vaillant per giorni, mesi, sino a quando ispirato le ritagliavo in formato consono all’idea che mi era venuta, le accostavo creando una sequenza logica e cinematografica, quindi iniziavo a scrivere la storia dell’accaduto: il numero del giro, le vetture coinvolte, la storia dei due piloti e delle loro auto sino alla conclusione dell’episodio. Il racconto terminava, rispetto alla drammaticità o meno delle immagini, con un finale negativo o positivo: tutto dipendeva anche dal mio umore. Dopo un anno mi accorsi di aver creato tante storie, un libro, un giornale? Non so. Certo è che quella passione, quell’esigenza di esprimermi attraverso la creatività visiva e scritta credo che un segno dentro di me l’abbia lasciato.
Se non ero in guerra e non correvo, o non dovevo crearmi un libro-giornale, alla giusta occasione mi piaceva giocare anche al dottore. Ma, abitando in una corte con tanti bambini, più che con tante belle e boccolose femminucce, quel gioco non mi prese più di tanto, così come non mi conquistò mai la medicina. Ben presto appesi il camice al chiodo e smisi di «esercitare»: non mi piaceva niente di niente, a differenza di alcuni bambini (non della banda) che continuarono a giocare al dottore nella penombra dei sottoscala, dove con tanto di scialle della nonna sulle spalle visitavano altri maschietti che si fingevano sempre malati. All’epoca non capivo, certo è che li trovavo strani, perché non facevano mai a botte, perché stavano sempre con le femminucce, perché a ogni occasione si comportavano come loro… Ma perché mai non volevano giocare con noi e fare parte della banda? Poi, con il passare degli anni, l’ho capito perfettamente. Anzi, guarda come cambia la vita, ora sono i «fanciulli dottori» che vorrebbero trascinarmi nella loro «banda», ma è impossibile, non giocavo al dottore con loro prima, figuriamoci adesso! No, grazie, io resto fedele alla mia banda. Qualche anno dopo, verso la quarta elementare, fui folgorato dai racconti e dai filmati di Folco Quilici e di Jacques Cousteau. Non persi tempo, e con l’amico Brambilla subito ci organizzammo. Con estro e genio prendemmo una bombola del gas, vuota naturalmente, aprimmo con cura la valvola per far entrare aria al posto del gas ormai esaurito e la lasciammo così, tutta la notte. Il giorno seguente all’orario stabilito partimmo per la missione «Abissi». Chiusa la bombola (poiché secondo i miei calcoli era entrata aria a sufficienza) la collegammo a un tubo di gomma lungo un paio di metri, così avevo calcolato la massima profondità raggiungibile. La misi a cavallo della bicicletta e, spingendola, andammo verso un canale. Avete presente? I canali di campagna, in quegli anni, erano molti, partivano dal canale Villoresi e scendevano verso sud attraversando le campagne di Cusano Milanino, Bresso e Niguarda.
Ecco, proprio tra queste ultime due «cittadine» c’erano le famose «due vasche», una sorta di scambio e raccolta delle acque, tra due chiuse. Era per noi una vera e propria piscina. Nelle giornate di luglio, all’insaputa di mia madre che lavorava, andavamo a fare il bagno, i tuffi, le prove di resistenza sott’acqua senza respirare. I più arditi passavano in apnea il salto delle chiuse. Era una prova di coraggio: chi lo faceva diventava «dei nostri». Con il Brambilla arrivammo esausti alle due vasche. Seduto sulla riva, con la schiena contro la bombola, Umberto con una spola di spago mi girava attorno, legandomi come fossi un salame. Dalle ascelle all’ombelico, sino all’esaurimento dello spago, mi fece un bel modo, di quelli tripli, come si deve. Quindi presi tra i denti la canna, collegata con cura alla bombola, misi la maschera e calzai le pinne, e come avevo visto fare al comandante Cousteau mi buttai all’indietro nella vasca, giù verso gli abissi. Arrivai subito sul fondo: mi accorsi immediatamente che qualcosa non funzionava, non usciva «aria» dalla bombola! Capii subito il perché. «Quel pirla di Umberto mi ha cacciato giù dimenticandosi di aprire la valvola!!!». Nel frattempo, comincio a tornare verso la superficie… «Certo, che pirla che sono, non ho previsto la cintura dei pesi, per forza salgo». Io sotto e la bombola sopra. Cominciai ad annaspare, iniziava a mancarmi l’aria. Non mi feci prendere dal panico, cercai di riflettere su cosa fare. Provai a raddrizzarmi, a mettermi in piedi, ma la bombola pesava troppo per me. In aggiunta, le decine di metri di spago, bagnato e teso, cominciavano a lacerarmi e scorticarmi il costato, la pelle. Mi divincolavo come un pesce fuori dall’acqua, cercando di venirne in qualche modo fuori. Ci riuscii grazie all’intervento di Giancarlo, il «Ciccio», un marcantonio grande e grosso che con un balzo felino saltò in acqua sollevandomi di peso, girandomi sotto sopra, mettendo almeno il volto fuori dall’acqua. Se non fosse stato per lui, sarei in fondo a quegli «abissi» ancora adesso!
Da quei giorni sono trascorsi 50 anni. Nel frattempo, altre passioni sono entrate a far parte del gioco della mia vita ma per credo, piacere, valore, passione ed emozione, crescendo anno dopo anno, sono rimasto vicino e fedele ai giochi della mia infanzia. Sembrerà strano, ma in tutte le cose che ho fatto nella mia vita professionalmente, privatamente e per passione ho ritrovato sempre me stesso, i miei giochi. È accaduto quando negli anni 70 ho iniziato a immergermi con le bombole (quelle vere!), a correre in kart, a collaudare per mesi i Formula Monza, a servire con orgoglio la Patria, al primo mutuo, a diventare commissario di percorso, a passare da tipografo a grafico, con un pallino sempre in testa: cercare e amare belle ragazze. Poi negli anni 80 e 90 il gioco della vita è diventato più adulto. In quel periodo ho vissuto un’intera vita, sempre con i miei giochi vicino. Corse, donne, immersioni, sigari, mixati a viaggi, a macchine elaborate, al giornalismo e a giornali nuovi da inventare, a nuove donne, ai primi incidenti in pista, sino all’arrivo dei figli, poi la prima direzione, giocando con la vita, sempre, ogni momento, 24 ore su 24. Con l’arrivo del nuovo secolo ho cambiato compagni di gioco.
Stufo e stanco di giocare a costruire castelli per altri, avevo capito perfettamente che se volevo un mio castello in cui giocare, dovevo costruirmelo da solo. Quindi presa paletta e secchiello, le formine, sono andato a giocare con altri amici su un’altra spiaggia. Venduto tutto o quel poco che avevo, come un moderno San Francesco sono ripartito da zero, rimettendo completamente in discussione e in gioco tutto e tutti per realizzare il mio sogno. Tutto è cambiato, dalla professione alla famiglia, dagli amici ai giochi stessi. Da quel giorno è passato un secolo, tutto nel frattempo è diventato più difficile, tutto compresi i giochi, spesso duri da capire e da affrontare con serenità. Per mia fortuna ho giocato tanto nella vita: ecco allora che mi ritornano alla mente strategia, creatività, passione, coraggio, valori che mi hanno plasmato e forgiato nel gioco come nella vita. Alla fine, se mi fermo e analizzo le difficoltà dall’esterno, tutto mi sembra un gioco già giocato. E torno a divertirmi con le macchine, in pista come per strada, a giocare con la mia donna, con il mio cane, ad andare sott’acqua e correre in kart con i miei figli, divertendomi nel mio castello di carta ad assemblare con la mia banda idee, concetti, contenuti, testi e foto per realizzare un gioco per i miei simili: il nostro libro-giornale per i maschi e per le donne che, come me, amano la vita. Del resto, la vita non è che un meraviglioso gioco.
