Sette gennaio, giù la testa, pronti e via, si parte a razzo, più veloce della luce. Lesto come un soldatino sarò sui blocchi di partenza della Fortezza da Basso di Firenze per la 95ª edizione di Pitti Uomo. Quattro intensi giorni tra moda, idee, cose strane, design, eventi, abbagliato da mille stimoli, alcuni intelligenti, altri stupidi e inutili. Giusto il tempo di rientrare a Milano, di posare la valigia usata, di prepararne una nuova, di metterla in auto e via ripartire subito in direzione di Ginevra, dove il 14 gennaio si alza il sipario sul 29° Sihh, il Salone dell’alta orologeria. Altri giorni passati a guardare, toccare, interrogare, osservare centinaia di nuovi orologi. Come a Firenze, anche qui sono tante le idee, decine gli stimoli, alcuni intelligenti, altri banali e inutili, anche qui, come a Firenze, ci sarà sicuramente qualcuno che proporrà bieche operazioni commerciali dettate dal marketing per abbagliare e affascinare schiere d’incolti, pronti a pagare tanto per avere niente. Starò attento, osserverò per voi questi mondi e vi riferirò senza farmi infinocchiare dai vari osti. La verità è che sia Firenze sia Ginevra non mi hanno mai deluso. La città del Giglio mi appaga per un 25% con i prodotti, per un 35% con le idee, per il restante 40% non ci siamo: si tratta di un linguaggio dell’abbigliarsi che non mi appartiene, anzi, spesso lo trovo diseducativo. Per contro la città elvetica ha sempre proposto prodotti e modelli oltre le aspettative e diciamo che un buon 60% è coerente con l’Arbiter pensiero. Due mondi, quello della moda, che a noi di Arbiter piace invece chiamarlo dell’abbigliamento, e quello dei segnatempo, che sempre più spesso tendono a mettere in evidenza la deriva verso cui la società sta andando: le nuove generazioni poco o nulla sanno, i giovani vivono beati e felici nella loro ignoranza. Ci mancherebbe, contenti loro. Ma la domanda viene spontanea: è davvero tutta colpa loro?
Il vero problema è che nessuno gli ha detto e spiegato niente; famiglia, scuola, professori, università li hanno fatti crescere allo stato brado. Nella vita tutto parte dal sapere, dall’esperienza, dalla cultura. Se mancano, se nessuno te lo insegna, la tua curiosità, la tua sete di conoscenza, il tuo desiderio di scoprire saranno inesistenti. Lo capisco e lo percepisco quando vado a parlare nei licei o all’università del significato del concetto di pertinenza nel vestire e nell’abbigliarsi, concetto che i barbari di oggi chiamano dress code. Significativa è l’attenzione che dimostrano: guardando i loro occhi, mi rendo conto che per loro è una bella novità, partecipano, si interessano e seguono. Fanno domande e chiedono di continuare a parlare. Firenze dovrebbe tornare a essere la culla non solo della lingua italiana, ma anche del saper vestire italico. L’esempio arriva proprio da un toscano, Giovanni Battista Giorgini. Nella chiesa di Santa Croce c’è una tomba monumentale della famiglia Giorgini risalente al XV secolo. Fu Niccolò Giorgini nel XVIII secolo il primo ministro della Repubblica di Lucca, così come fu un Senatore Giorgini l’amico più caro (e consigliere) del Conte Benso di Cavour e cognato di Massimo D’Azeglio. Così come all’epoca dei Mille il colonnello Giorgini fu uno degli arditi del Battaglione universitario Toscano nella guerra per l’indipendenza del 1848. Dunque, come stupirsi della capacità organizzativa, diplomatica e dell’energia di Giorgini? Fu lui, di sua iniziativa, a invitare un pugno di sarti e sarte e organizzare nel salotto di casa la prima sfilata per valorizzare la nostra moda, era il 12 febbraio del 1951, l’invito recitava: «…le Signore (e Signori) perciò sono vivamente pregate di indossare abiti di pura ispirazione italiana». Il solco era tracciato. L’anno successivo, il 22 luglio del ’52, nella splendida Sala Bianca di Palazzo Pitti, Giorgini diete vita all’Italian High Fashion Show, la prima sfilata ufficiale della Moda Italiana. Lo stesso anno, dall’8 al 14 settembre, Michelangelo Testa, direttore di Arbiter, organizza a Sanremo il I Festival della Moda Maschile (seguito due anni dopo dal I Festival della Canzone di Sanremo). L’Italia era uscita dal buio del dopoguerra.
Per diritto di cronaca e cultura, la scintilla con la moda italiana scoccò qualche anno prima. Accadde a Roma, nella bellissima Villa Torlonia, in occasione della I Mostra del Tessile Nazionale. Decine e decine di produttori di stoffe e tessuti parteciparono all’adunanza, si ritrovano sotto lo stesso tetto per un confronto diretto con migliaia di artigiani, sarti e sarte, disegnatori, artisti, creativi, allievi di scuole statali e parastatali, tutti uniti dall’amore e dalla passione per i tessuti. Quei tessuti che da interpreti del buon gusto dell’Arbiter elegantiarum diventano per l’artista tele su cui liberare la propria fantasia. Ed è così che hanno attraversato le epoche «indossando» ogni volta abiti differenti. L’eleganza diventa arte e l’arte racconta la sua visione etica ed estetica dell’abbigliamento. La luce si accese, a Villa Torlonia, tutti i convenuti cercarono di capirsi, di collaborare, di fondersi, aggregarsi con capacità e volontà verso un unico e medesimo progetto. Benito Mussolini alla fine della manifestazione sentenziò: «Una moda italiana non esiste, crearla è possibile, bene, bisogna crearla!». Era il novembre del 1937. Il resto è storia. Una storia che ha dato alle cronache dei tempi glorie e onori di un mondo, quello dell’abbigliamento maschile, che oggi chiede di essere riscoperto e valorizzato. E al quale Arbiter, oggi come allora, dà voce.
