Meno ma meglio. È una regola di vita che ho imparato e affinato negli ultimi vent’anni. Più o meno ha coinciso con la fine del secolo scorso, quando ho capito che la felicità e quel senso di appagamento o agiatezza che cercavo e volevo non coincideva per nulla con la fame di denaro e con la fama data dall’apparire. No, capii che ciò che mi appagava e che mi rendeva felice era la ricerca della mia indipendenza e libertà professionale. Avevo capito quanto amassi il mio lavoro, alla fortuna che ho avuto nell’averlo cercato, incontrato, alla fortuna di essermene innamorato. Avevo capito il grande valore di una scelta di vita estremamente difficile e complicata, ma completamente appagante, affascinante. Mi ero tolto un peso (che in realtà non ho mai avuto): non avere più la sensazione di lavorare, ma quella consapevolezza di essere occupato a fare ciò che mi piace: progettare, creare e fare giornali. Avevo capito che per realizzare i «miei» giornali dovevo essere padrone di me stesso. Capii che d’ora in avanti avrei dovuto pagare per lavorare, a differenza di tanti e stimati colleghi professionisti, che sono da molti anni abituati a essere strapagati per lavorare. Differenza sostanziale.
Avevo capito che le regole del gioco del mondo editoriale sarebbero ben presto cambiate, avrebbero seguito corsi e rotte differenti, in alcuni casi sarebbero crollate. Allora, a fine secolo, tutto girava al meglio in termini di fatturati, di pubblicità, di vendite. Quello era il momento kairós per iniziare a riprogettare le aziende editoriali, perché fossero in grado di guardare al futuro e di reggerlo. Tutte le case editrici godevano di un benessere che pareva senza fine (pensate solo ai miliardi elargiti dai Governi di allora sotto forma di incentivi all’editoria…); tutti si pavoneggiavano e vivevano sugli allori, senza pensare al futuro. Era palese la cecità e l’incuria che mostravano i grandi gruppi, i loro manager (che sanno, più o meno, fare i conti ma non capiscono un cavolo fritto di editoria), i colleghi professionisti, i sindacati di categoria. Ma mi dite come si può pensare di essere professionisti e contemporaneamente dipendenti? Come si può pensare di fare ancora un quotidiano con 3/400 persone in redazione come 30 anni fa, quando si ha una tecnologia così esasperata al nostro servizio? Come diceva il buon Gino Bartali: «L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare». Lo capii, mi tolsi da tutto ciò, o meglio, mi tolsi quel poco che avevo, e mi misi in gioco.
È come la scena di un film dove l’attore al casinò punta tutti i denari che gli son rimasti alla roulette sul 18 rosso. Ecco, quello feci, puntai tutti i denari sui miei numeri e sulle mie capacità. Consapevole che sarei diventato il due di picche dell’editoria, ma altrettanto conscio e felice di poter così vivere da uomo libero, di pensare, creare, fare, dire e scrivere ciò che voglio. Altrettanto consapevole che non sarebbe stato semplice fare il presidente, l’amministratore delegato, il direttore, l’art director, il venditore di me stesso e della réclame (anzi, scusate dell’advertising), di gestire l’ufficio acquisti, quello del personale, quello legale e spesso all’occasione fare anche il fattorino. Dov’è il problema? Il fine giustifica sempre i mezzi, l’importante è crederci. La mia ricchezza? Semplice, sta nei giornali che ho fatto, che state liberamente leggendo. Sta nei sette giornalisti e nelle altre sette persone che lavorano accanto a me. Sta in quel senso di libertà che respiro ogni qual volta entro in azienda, apro la porta e vedo il sorriso di Cecilia; sta nell’immenso piacere che provo quando vado in redazione e Alessandro mi saluta, mentre Mattia, Valentina, Francesca mi incalzano ricordandomi gli impegni quotidiani. Sta nella felicità di quando torno a casa la sera e trovo il mio cagnaccio peloso che mi scodinzola tra le gambe, mentre Antonella mi dà un bacio.
Certo, non ho più casa al mare, in montagna, né auto super elaborate da officine più care di una boutique Cartier. Tutto vero, ma poco importa. Ho tolto le catene che mi legavano al vecchio modo di concepire e interpretare al vita. La mia è stata una scelta di semplicità, di ritorno all’essenziale, al fare le poche cose che mi danno soddisfazione, senza l’ansia frustrante di rincorrere il tutto, di essere simpatico a tutti, di soddisfare tutti. Meno, ma meglio. Il tema di copertina è il principio che ha innervato la mia vita, personale e professionale. Fare bene le cose che si sanno fare bene. Soprattutto, quelle che rispondono in maniera compiuta al proprio essere. Una scelta non facile, in un’epoca nella quale prevale l’eccesso smodato, conta chi ha migliaia di amici su Facebook, giacche, barche, auto, moto, case in eccesso, per apparire più che per essere. Credo che oggi le persone, il mondo, non abbiano bisogno di questo. Ma abbiano bisogno di tornare all’essenziale. Di trovarlo in sé e farlo diventare regola di vita.
Non significa chiudersi in un eremo e rinunciare al mondo, ma manifestare appieno la propria personalità e capacità di giudizio. Vedrete che il mondo lo capirà, e vi seguirà. Steve Jobs non era certo un santo. Ma ha intuito che se fai una cosa semplice, e la fai benissimo, la gente finirà per non poterne più fare a meno. Perché è in quell’essenzialità che troverà le regole prime del suo essere. Sono convinto che questo sia il momento storico per riaffermare questo principio. Il momento in cui servono gesti scandalosi (come la rinuncia, incomprensibile, di San Francesco alle ricchezze) per far passare messaggi forti. Tornare alle domande vitali: chi siamo? Perché siamo qui? Che cosa vogliamo fare della nostra vita? Lasciando da parte tutti gli orpelli, gli eccessi, gli accumuli. Non ce li possiamo più permettere, non perché non li possiamo «comprare», ma perché distorcono il nostro essere, la nostra aderenza alla realtà. Scriveva Goffredo Parise nel 1974: «Povertà vuol dire rendersi conto di ciò che si compra, del rapporto tra qualità e prezzo: cioè saper scegliere bene e minuziosamente ciò che si compra perché necessario, conoscere la qualità, la materia di cui sono fatti gli oggetti necessari». Torniamo a essere poveri, almeno dentro: è la nostra maggiore ricchezza.
