La bellezza è dinanzi agli occhi di tutti, nelle opere semplici e all’apparenza facili, così come nelle opere più difficili, ma per vederla, la bellezza, devi averla dentro. Esattamente come l’eleganza. Devi saperla riconoscere, conservare e tutelare. Guardate l’Autodromo di Monza, una pista unica, inserita nel parco recintato più grande d’Europa; architetti, designer e università vengono da tutto il mondo per ammirare l’opera commissionata nel 1922 dal senatore Silvio Crespi (all’epoca presidente della Sias, Società incremento automobilismo e sport) all’architetto Alfredo Rosselli e all’ingegnere Piero Puricelli. Fu la prima pole position dell’autodromo, tempo da battere: 110 giorni!
Prese così il via una pista stradale di 5,5 km che si interseca a due livelli, mediante un sottopasso nella zona del Serraglio, con l’anello di alta velocità di 4,5 km che prevede due curve di raccordo sopraelevate, da brivido. Nacque così il mito di Monza. Un luogo magico, dove si respira aria che sa di storia, di coraggio, di morte, di gloria, di felicità. La prima volta che entrai all’autodromo era il 6 settembre del 1964, avevo 9 anni. Allora i Gran premi erano massacranti, si partiva in 25 per 78 giri, pari a oltre 448 kilometri, senza soste, con le stesse gomme, con i serbatoi stracolmi di benzina, cambio meccanico manuale, frizione tarata oltre gli 80 kl, con i guard rail a una spanna dalle orecchie, con tanto piede e coraggio da vendere.
Sentii la musica soave dei 12 e degli 8 cilindri, le urla della gente che incitava Baghetti, Scarfiotti, Bandini, Geki. A metà parabolica vidi il controsterzo di Graham Hill. In frenata alla parabolica la maestria nella staccata di Jim Clark, di Bruce McLaren. Gli occhi e le narici erano saturi di aromi di benzina e gomma bruciata. La gente attorno era estasiata e conquistata dall’abilità, dal coraggio che i piloti duello dopo duello esibivano con naturalezza. Esplose dentro me l’amore per questo sport, per questo Autodromo. Da quel dì non ho più perso un GP, sino al 2001.
Come commissario di percorso, capoposto, sportivo, delegato ho cercato di dare il meglio di me stesso a Monza, all’automobilismo lombardo e nazionale. Ho avuto la fortuna di avere come mentore il ragioniere Romolo Tavoni, discutere con lui e con l’ingegner Giuseppe Bacciagaluppi le vie di fuga, i guard rail della seconda di Lesmo, dove posizionare le ambulanze, i commissari, le gru, i Leoni del mitico Amadesi. Di conversare sull’interpretazione di regolamenti obsoleti (oggi demenziali!) con Gianni Restelli, Ottorino Maffezzoli, Roland Bruy Serare. Direttori e dirigenti unici, che in mezzo a mille difficoltà hanno sempre e solo difeso gli interessi dell’Autodromo e dell’automobilismo. Uno su tutti, il Presidente dell’Automobile Club di Milano: Luigi Bertett; altro mondo rispetto a quella massa di manager incapaci, idagati, sospettati che si rimpallano le responsabilità senza il coraggio di prendere una decisione.
Noi le gare non le fermavamo mai, o quasi mai. Far entrare la pace-car o fermare la corsa con la bandiera rossa era un’onta. Alberto, Tino, Andrea, Livio, Mario, e altri 100 commissari sotto la pioggia, il sole, la neve 40 week-end all’anno eravamo lì, in pista, pronti a dare tutto per la vita dei piloti, per amore dell’automobilismo, consci di essere solo delle comparse, ma pronti a intervenire con coraggio, coscienza, conoscenza dei regolamenti, e a prendere decisioni nel nome dello sport, sapendo che prima di tutto c’era l’uomo! Tra di noi i dibattiti sugli interventi di gara, l’uso delle bandiere, sui piloti, sui regolamenti non finivano al bar dopo la gara. Tutti i martedì, dico tutti, ci trovavamo in corso Venezia al 43, al primo piano, nella saletta riunioni dell’ufficio sportivo e ritornavamo sui fatti accaduti in pista, confrontandoci e analizzandoli con i più esperti, il Bianchi, De Felici, Vezzosi, per capire, migliorarsi e per non ripetere gli stessi errori.
Monza era sinonimo di gioia condivisa con lo splendido pubblico che riempiva i 5,750 km di pista. Dalla Formula Monza alle Gran Turismo, dai Prototipi alla F1 l’autodromo era sempre zeppo. Ai box trovavi il mondo: belle donne, attori, pittori e poi c’erano gli uomini che in autodromo ci sono nati, Ercole Colombo, Franco Scandinaro, Carlo Facetti, Gianni Giudici, Giorgio Terruzzi, Luigi Colzani, Nando Cazzaniga, Angelo al cancellone, e il vero padrone dell’Autodromo, il Beretta, e molti altri che la storia di questa pista l’hanno scritta, fotografata e vissuta da oltre 40 anni. Ma avete provato ad andare negli ultimi anni all’Autodromo di Monza? Ogni volta che ci metto il piede mi viene il magone. Sembra tutto fermo, abbandonato, un lembo di terra di nessuno.
Peggio se leggo le intenzioni dell’Automobile Club di Milano, praticamente assente. La differenza, come sempre, la fanno gli Uomini, materia rara, che negli ultimi vent’anni manca. Manca all’Autodromo e manca all’Italia. Intendo uomini che abbiano la consapevolezza, la cultura per vedere e riconoscere la bellezza. Per capire quando quel che si trovano davanti, che sia un quadro, una chiesa, un bosco o una sopraelevata rappresentino un’opera unica dell’ingegno umano o della natura. La bellezza è la materia che stimola l’aspirazione al meglio, che dà forma all’etica.
Ma il bello non basta crearlo, mestiere per il quale gli italiani da sempre sono i migliori al mondo, bisogna anche saperlo conservare e valorizzare. Per questo in copertina tra le migliaia di italiani che in tutti i campi e in tutti i secoli hanno creato bellezza ho scelto Raffaello Sanzio, pittore sublime, ma anche colui che si è preoccupato, su incarico dell’allora papa Leone X, di sviluppare un programma di conservazione del patrimonio artistico di Roma. Non è dunque l’artista solitario che crea di testa sua, fregandosene di tutto e di tutti (conosco molte persone che oggi si proclamano «artisti» per poter fare quel che gli pare, alla faccia delle regole e, molto spesso, del buon gusto). Ma è colui che, proprio perché conosce e sa riconoscere la bellezza, sa anche quanto essa sia delicata e labile. Quanto abbia bisogno di cure per dare il meglio di sé. Perché sia non solo «merce di consumo», come in maniera sciocca si intende oggi l’arte o il paesaggio, ma nutrimento. Per noi e per chi verrà dopo di noi.
