Arduo da realizzare e finanche delicatissimo secondo coloro che, nel mondo dei lievitati, lo creano e ciò dipende, come spesso accade, dall’aurea, virginale semplicità che lo caratterizza. E un imperativo complicato e semplicissimo: quello del less is more che il pandoro incarna sin dai tempi del suo fautore Domenico Melegatti il quale, per primo, gli impose la massima precisione nel rispetto dei tempi di cottura. Ce lo spiega Daniele Lorenzetti, pasticciere e mastro del mondo dei lievitati: «Bisogna centrare precisamente la temperatura e, in funzione di questa, i tempi di cottura. Non è un caso che, precisamente per il pandoro, io abbia fatto installare, nel forno, un inverter». Questione di tempi, dunque, immemori quelli della sua primissima ricetta, compilata addirittura da Plinio il Vecchio e attribuita al cuoco Vergilius Stephanus Senex il quale era solito confezionare un pane a base di farina, burro e olio che, stratificandosi nell’uso, e nel consumo, conduce al pane de oro servito sulle tavole di Venezia per tutto il XIII secolo. Da qui il pandoro fu però traghettato verso la contemporaneità dalla città di Verona dove si ambienta come evoluzione più preziosa del Nadalin. Ma bisogna aspettare la modernità, e Domenico Melegatti, appunto, che lo brevetta il 14 ottobre del 1894 dopo che l’amico pittore Angelo Dall’Oca Bianca ne ebbe disegnata la forma e un amico tornitore ne forgiò all’uopo il celebre stampo a mo’ di stella a otto punte. A lui quindi l’onore, e il merito sancito anche dal Ministero dell’Agricoltura, dell’Industria e del Commercio del Regno d’Italia di averne inventato nome, forma e ricetta, considerando che lo stesso Melegatti lo spogliò a poco a poco di tutti quegli orpelli che riteneva innecessari alla sua più intima, autentica natura. Gli tolse le mandorle e i granelli di zucchero in superficie, vivaddio!, potenziandone per contro l’impasto attraverso l’uso di più burro, più uova e più olio di gomito: 36 ore di lavorazione accurata e di dedizione pressoché totali, tra lievitazione (di circa dieci ore) e cicli di impasto (fino a sei quando non sette). Una gestazione, dunque, simile a quella delle partorienti: in grembo, il figlio di una festività aurea come il Natale, della cui solennità mutua anche la forma sia cardinalizia che vescovile. Quanto ai suoi artigiani, col pandoro essi si cimentano nella prova delle prove, quella del filo, che consiste nel tagliare una fetta e strapparla con le mani: la mollica deve venir via filando, seguendo il corso di un’alveolatura allungata e sofficissima. Quanto agli ingredienti, c’è chi preferisce il burro di cacao e chi la vaniglia: ma guai a esagerare. La vaniglia, infatti, obnubila la semplice, delicata quintessenza del pandoro fatta dell’inestricabile percezione di uova e burro al contempo. A tal proposito anche la sua dolcezza deve essere contenuta: a bilanciarla ci penserà infatti la fiabesca azione dello zucchero a velo che ammanterà di una coltre invernale e finissima il nostro Natale.
Pasticceria Lorenzetti, San Giovanni Lupatoto (Vr).
Il pandoro di Daniele Lorenzetti è un’esperienza cerebrale e da intenditori: si presenta di un bel color brunito fuori, dorato all’interno, affatto dolce e per nulla ruffiano, nemmeno al naso dove appare abitato da percezioni deliziose di tostatura, di burro scottato sul fuoco e malto. Al palato, una consistenza precisa, materica ma evanescente si propaga svaporando in note di burro di cacao e tostatura e un sapore che si comprende meglio al retrogusto e al retrolfatto dov’è straordinariamente persistente. E se per i bambini sarà imprescindibile l’utilizzo dello zucchero a velo, gli adulti faranno invece assai bene a metterne da parte almeno una fetta, meglio se attinta dalla base dov’è ancora più tostata e quasi appiccicosa, da consumare in un rituale solitario e notturno, davanti alle braci del fuoco ormai spento: un momento meditativo che diventerà assai consolatorio se abbinato al sorso freschissimo, quasi siderale del Moscato d’Autunno di Paolo Saracco (da 34 euro, pasticcerialorenzetti.com).