Il tempo degli dei non è in vendita

Ott 22 2021

 

Nel calendario tradizionale giapponese ci sono 72 stagioni e gli anni si chiamano come l’Imperatore in carica. Primavera, estate, autunno e inverno non bastano a rendere giustizia all’inimitabile varietà della natura e ogni sovrano segna il passaggio di consegne tra il vecchio e il nuovo mondo. Questa è l’arma con cui i nipponici si ancorano ai valori più spirituali ed elevati della loro patria per far fronte alla tabula rasa della modernità.

«La verità ti renderà libero, ma solo quando avrà finito con te», sentenziò David Foster Wallace. Ma non si può forse dire lo stesso della modernità? Intendiamoci: chi scrive non è un luddista. Non è al progresso tecnologico in sé che mi riferisco (chi non è felice di poter vivere in una casa riscaldata o di viaggiare su una comoda automobile?), bensì alla modernità dei fast food, dei mobili svedesi, dei social network. Quella modernità che tutto semplifica, velocizza, ottimizza, ergonomizza, domotizza, fino a non lasciare che un guscio vuoto di ciò che prima era un uomo, un viaggio, un lavoro, una casa. È il fascino discreto della sterilità. Il tema non può che far pensare al Giappone, con i suoi robot avveniristici, i treni ultraveloci e gli alberghi a capsule. Qui anche il tempo ha dovuto pagare un prezzo al cosiddetto «progresso», come testimonia l’abbandono del calendario tradizionale wareki. Nelle sue forme primigenie, questo lunario ripartiva l’anno in 24 stagioni (sekki) come il modello cinese a cui si ispirava. Con il progressivo emanciparsi dagli stilemi dell’ingombrante vicino, ai nipponici tale suddivisione dev’essere sembrata grossolana, come a un occidentale possono apparire le due sole stagioni, estate e inverno, contemplate dagli abitanti del Polo Nord. Fu nel 1685 che Shunkai Shibukawa, astronomo di corte, ebbe l’idea di dividere ogni sekki in tre periodi di circa cinque giorni l’uno, detti kō. Così l’anno venne suddiviso in 72 microstagioni, a cui Shibukawa diede personalmente un nome.

Per dare un’idea del funzionamento, risshun («inizio di primavera»), il sekki da cui si faceva principiare l’anno, è diviso in tre kō: «il vento dell’est scioglie il ghiaccio» (dal 4 all’8 febbraio), «gli usignoli cominciano a cantare tra le montagne» (9-13 febbraio) e «i pesci emergono dal ghiaccio» (14-18 febbraio). Alcuni kō si limitano a registrare lo sbocciare dei fiori topici della tradizione: ciliegio (26 marzo), peonia (30 aprile), iris (27 giugno) e naturalmente il crisantemo (13 ottobre), simbolo della casa imperiale. Altri sottolineano la ciclicità degli eventi: se dal 10 al 14 aprile «le anatre selvagge volano a nord», dall’8 al 12 ottobre le si potrà veder tornare; dal 15 al 19 aprile si può assistere ai «primi arcobaleni», ma è inevitabile che dal 22 novembre l’iride si «nasconda». Altri ancora rivelano una poeticità inaspettata, frutto di una sensibilità sottile e lirica. Se a marzo «i bruchi diventano farfalle», ad aprile rimbombano «tuoni lontani». A maggio «le rane cominciano a cantare»; meno scontato è che dall’11 giugno «l’erba marcia si trasformi in farfalle». Probabilmente le cicale sanno che in luglio «i falchi imparano a volare», se scelgono di aspettare agosto per dare il via ai loro «canti notturni». A settembre «la rugiada luccica bianca sull’erba» e a ottobre «i grilli friniscono vicino alla porta», in attesa che «il vento del nord», a novembre, «soffi via le foglie dagli alberi». E se a dicembre, per Thomas Stearns Eliot, «venne Cristo la tigre», i giapponesi si limitano a osservare i sacri cervi di Nara «mutare le corna». Tutto questo fino al daikan, il «grande freddo» (20 gennaio – 3 febbraio), il sekki che termina l’anno, prima che il vento dell’est sciolga nuovamente il ghiaccio e la vita ricominci il suo corso.

Un ben più semplice calendario in stile occidentale pubblicato nel 1873, anno in cui il wareki venne abbandonato in favore del calendario gregoriano

Così sarebbe sempre stato, si credeva. Ma con l’ascesa al trono dell’imperatore Meiji, nel 1868, il Giappone venne spinto sulla via di una modernizzazione forzata e accelerata, con lo scopo di evitare al Paese la sorte della Cina, ridotta a colonia dell’Occidente dopo le guerre dell’oppio.

Meiji, l’Imperatore che tra il 1868 e il 1912 ha traghettato il Paese dal feudalesimo all’età moderna

Nel 1873, il wareki venne sostituito dal calendario gregoriano: solo una delle tante vittime sulla strada dello sviluppo. Ciò a cui invece i nipponici non vollero rinunciare fu l’importanza simbolica dell’Imperatore, il Tennō, nella scansione del tempo. Nel Paese del Sol levante, infatti, gli anni non vengono calcolati a partire dalla nascita di Cristo, ma dall’inizio del regno del sovrano in carica. Se fino al 30 aprile 2019 eravamo nel 31° anno Heisei («pace realizzata», nome ufficiale dell’Imperatore Akihito, il primo sovrano in oltre due secoli ad abdicare), dal giorno successivo siamo entrati nel primo anno Reiwa («meravigliosa armonia», il nome scelto da suo figlio Naruhito, attuale Imperatore). Benché, dopo la disfatta del 1945, la Costituzione imposta dagli americani neghi formalmente la natura divina del Tennō e i suoi poteri temporali, relegandolo al ruolo onorifico di «simbolo dello Stato», per buona parte dei suoi sudditi egli resta un akitsukami, un «dio che si manifesta in terra».

L’Imperatore Naruhito proclama formalmente la propria ascensione al trono

Secondo lo shintoismo, Amaterasu Ōmikami, la dea del sole, ha conferito l’autorità sull’Arcipelago al clan di Yamato, sua progenie, nel 660 a.C.: data che la renderebbe la dinastia più antica al mondo. Il potere del sovrano deriva dunque da legami di sangue ininterrotti con la divinità: non a caso, il 18 aprile Akihito si è presentato a Ise, il principale santuario shintoista, per comunicare le proprie dimissioni direttamente alla dea. L’avvicendarsi degli imperatori non è dunque una semplice questione dinastica: è il passaggio di consegne tra il vecchio mondo e quello nuovo, la cesura definitiva tra ciò che è stato e ciò che sarà.

Amaterasu Omikamim, dea del sole e progenitrice degli Imperatori

Certo, sostenere che la modernità non abbia lasciato il segno nella percezione del tempo dell’Arcipelago sarebbe ingenuo. Basti dire che da ormai tre anni i dati di vendita dei calendari non incoronano né un celebre cantante di enka, né un sensuale attore di kabuki o di teatro nō, bensì Vladimir Putin, 66 anni, leader nel mercato degli almanacchi e presidente della Federazione Russa (non necessariamente in quest’ordine). Sfogliandone le pagine, si può ammirare l’ex funzionario del Kgb esercitarsi in posa da esperto judoka, immergersi nell’acqua gelata in occasione dell’Epifania ortodossa o coccolare languido un cucciolo di tigre bianca. Loft, la catena di negozi in cui viene distribuito, ha confermato come il prodotto abbia registrato vendite senza precedenti soprattutto tra le giovani donne, alla faccia di certa retorica nostrana che vorrebbe le giapponesi irresistibilmente attratte dagli efebici «maschi erbivori». Una descrizione non proprio calzante per il presidente russo, che di erbivoro ha a malapena il cavallo che monta a petto nudo in una delle foto più iconiche.

«So che cosa eravamo, lo so bene, ma non so più che cosa siamo e quale futuro ci possiamo aspettare», scrisse Namaeha Oboenai negli anni della modernizzazione forzata. Come nei paesi occidentali, anche nel Giappone contemporaneo, ultramaterialista, ipertecnologico, relativista, calcolatore, sonnolento e cinico, nel Paese che sembra essersi dimenticato che i cervi continuano a mutare le corna e l’erba marcia a trasformarsi in farfalle, si avverte lo stesso rischio di una perdita irreversibile di tradizione e di senso. La fondamentale importanza del Tennō e del tempo tradizionale è proprio questa: sono un’ancora d’identità per un popolo allo sbando tra i marosi della Storia. Anzi, di più: sono l’arma con cui i nipponici si ancorano ai valori più spirituali ed elevati della loro patria per far fronte alla tabula rasa della modernità. E a chi gli domandasse perché calcolano gli anni con un sistema così anacronistico, o perché non si accontentano delle quattro stagioni occidentali, i giapponesi sempre risponderanno: il tempo è sacro perché non è in vendita.

 

 

 

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