Le ho provate tutte

L o chef Giancarlo Morelli non rinuncia alla patata. Che declina nei suoi piatti in diverse forme e preparazioni. Svelando una varietà pressoché infinita di questo tubero, in grado di unire più mondi

L’alta cucina, almeno nel senso classico del termine, è spesso una diminuzione del valore della materia prima. L’importanza qui è dedicata alla trasformazione della stessa, elaborata grazie a moltissimi passaggi, a loro volta effettuati da un elevato numero di persone, per un tempo enorme rispetto al risultato: poche porzioni, per pochi eletti. Una cucina del genere trae la propria funzione dal regale e non dal reale. Quella italiana, al di là della propria attualità (g)astronomica, di stelle e prezzi, è invece una cucina radicata nel quotidiano, solo in apparenza umile, ma in grado di raggiungere vette altissime in fatto di gusto ed estro, perché non bisogna mai dimenticare che la solita minestra non deve mai sembrare tale. Il risultato? Grandi piatti, pochi scarti, e un’architettura che poggia su un numero ridotto d’ingredienti, a loro volta poveri, sottovalutati e persino dimenticati.

La patata per esempio. Una materia prima che per anni ha sfamato e al tempo stesso incantato le tavole del nostro Paese, grazie a differenti preparazioni. La contemporaneità di esse dovrebbe stare nelle mani di cuochi preparati, tanto sulla materia quanto sulle tecniche di trasformazione. Persone che riflettano sulla materia, piuttosto che essere vittime dei riflettori, ma che soprattutto siano in grado di mantenere vivo il ricordo dei propri sapori d’infanzia, perché, in cucina, il tramandare vale immensamente più del molecolare.

Giancarlo Morelli risponde alla perfezione a questo identikit. Ha basi solide e, per oggi, un po’ insolite. Istituto alberghiero, quando ancora gli iscritti della cucina erano pochi rispetto a quelli della sala, cui è seguito un globetrotterismo con diverse tappe di luoghi e di sapori.

Quelli di casa, per uno di campagna come lui, sono rimasti intatti, come dimostra la carta del suo storico locale il Pomireau a Seregno, nel Milanese, e quella della sua nuova creatura, un ristorante che porta il suo nome all’interno dell’Hotel Viu a Milano. In una città cosmopolita, abituata a suggestioni del palato sempre nuove, Giancarlo Morelli ha puntato invece sulla patata. Una nazionale, di montagna, anche se arricchita da quel bagaglio di esperienze che lo chef Morelli ha maturato là dove la patata è tutto. Il Perù da alcuni anni è sulla bocca di tutti con il ceviche, anche se è la papa (letteralmente patata), senza accento, la vera madre che dà vita alla gran parte della gastronomia locale. «Sono andato per la prima volta nel 2009 e da allora ci sono tornato 17 volte, facendo scoprire questa realtà gastronomica anche a molti miei colleghi», racconta Giancarlo. Che continua: «In Perù tutto sa di patata, tanto che a essa sono dedicati un museo e persino un giorno nel mese di maggio. Proprio qui ho capito come il tubero fosse un elemento essenziale di dieta, alle volte di sopravvivenza, senza dubbio di cultura per numerose comunità. In Perù della patata si utilizza tutto, come da noi, anche se qui il numero delle varietà locali supera le 1.600». Una cifra altissima, specie se pensiamo che alcuni esemplari sono coltivati ad oltre 3.500 metri sul livello del mare.

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