Sulle spalle del mito

N ella sartoria A. Caraceni l’abito è al servizio dell’uomo. Da generazioni i suoi tagli si basano su comodità e privilegio

Non c’è in Italia un’altra sartoria il cui indirizzo sia altrettanto noto. Del resto, dire Caraceni è come dire Cheval Blanc parlando di vini o Camper & Nicholsons di barche. Sin dall’inizio appare chiaro che la sartoria A. Caraceni è un posto speciale. Sul pianerottolo, accanto alla porta, è appeso un disegno di Spy, illustratore che lavorò per Vanity Fair dal 1873 al 1913. Come a dire: da qui in poi si entra in un regno dove il tempo è quello della storia e dei miti, non delle agende e degli orologi. Non è la prima volta che visito l’atelier, ma anche se ci fossi stato mille volte cambierebbe poco, perché ad atmosfere così non ci si abitua. Sebbene sia arrivato poco dopo le nove del mattino, nella sala principale trovo già un cliente immerso tra tagli e tirelle, alla ricerca della soluzione giusta per gli abiti che ha in mente.

Carlo Andreacchio, marito di Rita Maria Caraceni e attuale leader della bottega, mi fa accomodare senza presentarmelo. Non si tratta di cattiva educazione, anzi il contrario. L’uomo è geloso dei momenti che dedica a se stesso e non ama condividerli con sconosciuti che potrebbero invaderli. Mentre il fotografo armeggia coi suoi attrezzi, fingo di sfogliare qualche rivista e sbircio la scena. Come in tutte le sartorie di alto livello, l’offerta di tessuti è selezionata, ricca e tipica. A suo tempo abbiamo visto da Liverano una tavolozza dove il colore è dominante, qui si ode un organo nel cui suono solenne predominano le note dei grigi e dei blu. In verità, sono capitato durante l’inventario annuale e per qualche giorno i tessuti sono stati spostati in un’altra stanza. Il grande scaffale che da sempre li ospita è del tutto vuoto, privando l’ambiente di uno sfondo insostituibile.

Dire Caraceni è come dire Cheval Blanc parlando di vini o Camper & Nicholsons di barche.

Andreacchio va avanti e indietro, accumulando sul banco le stoffe che potrebbero fare al caso e illustrandone i pregi. L’ignoto gentiluomo è accompagnato da una signora di gran classe, con la quale si consiglia o fa finta di farlo. Indossa un completo di grisaglia sereno come il primo giorno di vacanza ed esamina attentamente ogni proposta. Qualche taglio va a drappeggiarlo davanti alla finestra, per vedere come reagisce alla luce naturale. Commenta con misura, senza alcuna fretta, e alla fine sceglie con sicurezza. Quando se ne sarà andato, il maestro mi confiderà solo ciò che era già evidente, ovvero che proviene da una dinastia di riguardo. Non approvo il costume di portare donne in sartoria, se non per i loro abiti, così gli chiedo cosa accada quando accompagnano il proprio uomo a una prova. Niente, mi risponde. Le prove si svolgono nei camerini, dove vige un silenzioso ma chiaro divieto di accesso a terzi.

Chiedo di vedere i tessuti e mi accompagna nella stanza dove stanno effettuando l’inventario, che si è trasformata nella grotta di Alì Babà. Ovunque brillano gemme scelte da un gusto colto e sicuro. I gessati hanno spaziature perfette, i quadri armoniose proporzioni, gli uniti le tinte più giuste. L’abbondanza è tale che la sartoria potrebbe andare avanti senza comprare nulla per cinque anni, ma non si diventa o si resta Caraceni facendo economia. Qua e là spuntano capolavori fuori produzione e nei posti d’onore troneggiano tagli ricavati da velli sontuosi. Si potrà dire che non è bello che qualcuno spenda per un cappotto quanto basta a una famiglia per vivere un anno, e l’osservazione non è priva di senso e sensibilità, ma bisogna anche accettare che molta della bellezza prodotta dall’umanità non esisterebbe se fossimo sempre restati nei limiti del politically correct. Entriamo ora nel laboratorio, nella cui prima stanza campeggiano i banchi di taglio dove lavorano lo stesso Carlo Andreacchio e il figlio Massimiliano.

Il metodo è del tutto particolare, a cominciare dalle misure, in numero molto superiore al solito. In una prima fase si prepara un cartone, che servirà da modello sino alla consegna del primo abito. Solo a quel punto, basandosi sulle rettifiche apportate durante le prove, viene preparata una tela definitiva. Non lo avevo mai visto fare, ma in effetti la tela presenta il vantaggio di poter essere modificata senza rovinarla e così di durare più a lungo. Anche la suddivisione del lavoro è diversa dal solito. Normalmente i capi passano in linea da una mano all’altra, mentre qui sono affidati a nuclei autonomi in ciascuno dei quali opera un maestro istruito internamente e responsabile del capo cui sta lavorando. Naturalmente è assistito da apprendisti, che lo aiutano e contemporaneamente assimilano lo stile e le procedure della casa. Invano cerchereste macchinari, interni già pronti, colli preformati o altre diavolerie che da un lato facilitano la costruzione e dall’altro favoriscono un’omogeneità dei risultati che avvicina molte sartorie moderne alla confezione. Dal taglio alla stiratura, ogni operazione è manuale e tutti i materiali naturali. Anche le fodere sono in pura seta e quella delle maniche ha un disegno esclusivo, come una firma. Grande attenzione viene posta alle richieste specifiche, perché non accada mai che chi abbia chiesto un dettaglio personale resti scontento. Anche i capi che, dopo anni, tornano in sartoria per riparazioni o aggiusti vengono trattati con la stessa cura. Una squadra di «caponisti» li rimette in sesto o li adegua alle nuove misure richieste. Ed eccoci finalmente alla prova.

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