Purosangue e Arena

I fratelli Giovanni e Franco Marchesini, nella loro sartoria fondata nel 1962, vestono i gentiluomini veronesi. Fedeli ai canoni di un’arte che, lungo l’Adige, è ricca di storia

Protetta dall’Adige da un lato e ben fortificata dall’altro, Verona prospera da migliaia di anni senza farsi mai notare troppo, né troppo poco. Omero nacque troppo presto per cantarla, ma lo fecero ampiamente Dante e Shakespeare, gli altri due grandi scrittori universali. Sede di re e signori, finanche di un papa, ha carattere da vendere e infatti è quello che fa, attirando turisti di ogni livello. Una delle peculiarità che ogni volta mi colpiscono è l’irragionevole dimensione delle lastre dei marciapiedi, che possono largamente superare il metro quadrato.

Come a dire parecchi quintali di marmo veronese, il cui inconfondibile rosso ricorda la carne dei totani. Visto che nella pietra sono incluse massicce quantità di cefalopodi fossili, mi piace pensare che siano stati proprio questi loro progenitori del Triassico a donarle il tipico colore. Nel dialetto veneto la lastra di pavimentazione si chiama liston, termine che spesso si estende alle piazze o strade più frequentate. Nessuno dei capoluoghi di provincia manca del suo liston, il posto storicamente dedicato al passeggio. A Verona è conosciuto con questo nome il largo marciapiede che corre lungo il lato ovest di piazza Bra, dominata dall’augusta mole dell’Arena.

La strada che corre dietro gli edifici, e da cui si accede ad alcuni di essi, si chiama via Dietro Listone. Forse a Venezia il toponimo avrebbe orgogliosamente conservato la scrittura dialettale, vanto di campielli e sotoporteghi, ma è anche vero che la Serenissima ha la statura di una città-stato che fu autonoma dal IX al XIX secolo. In ogni caso, al civico 8 della centralissima stradina ha sede quella che, dopo la scomparsa del compianto Egidio Marchioro, ritengo sia la più antica sartoria di Verona. La fondarono nel 1962 i fratelli Giovanni e Franco Marchesini, entrambi vispi e attivi come allora. Il mestiere lo avevano appreso nella bottega dei fratelli Armando e Ugo Crivellini e poi perfezionato a fianco di Giuseppe Cometti, maestro carismatico il cui talento da artista ha lasciato in loro un’impronta duratura.

Mi citano una sua frase che ne racchiude la modestia e il senso della continua ricerca: «Mi dispiace di essere diventato vecchio e non aver ancora imparato a fare il sarto». Parole piene di tenerezza e malinconia, sentimenti da sempre fuori dalla moda e forse proprio per questo profumati d’eleganza. Fino agli anni 60, nella sola provincia di Verona si contavano circa 650 sarti. Molti erano stati avviati verso l’indipendenza dall’Istituto di arti e mestieri don Bosco, che contribuì non poco a fare del Veneto una regione autorevole nel campo della sartoria.

Istituzioni come questa meriterebbero di essere riprese in considerazione, cosa che non può avvenire se le famiglie guardano all’artigianato con atteggiamento discriminante nei confronti di altre carriere. Sino a quando si preferirà avere un figlio avvocato con tre clienti piuttosto che sarto con duecento, i giovani orientati a lavori pratici, per quanto gratificanti sotto il profilo economico e sociale, li dovremo importare. Il successo degli chef potrebbe innescare un cambiamento, purché non si traduca in una replica della mitologia degli stilisti, un fenomeno dettato dalla fame di immagine più che dalla sete di conoscenza.

Quella dei fratelli Marchesini è una sartoria tradizionale sotto ogni aspetto. Lontani dai circuiti mediatici, dai social e dalle riviste, a eccezione della nostra, abituata a cercare anche fuori dalla luce dei riflettori, sono all’opposto della star sempre in viaggio tra Oriente e Occidente. Servono i gentiluomini di Verona, non i finanzieri di Pechino. Una clientela colta cerca la forma più della firma, il sussurro della misura più del rumore dell’appariscenza. Ciò che meglio mi è sembrato riassumesse la cura e la grazia dei due anziani maestri è stato un tight ancora a seconda prova. In inglese il tight si chiama morning dress e la sua giacca, detta morning coat, ha code avvolgenti, petto singolo e baveri a lancia. In genere presenta un solo bottone, che a differenza del frac deve potersi allacciare.

L’errore in cui incorrono la gran parte dei sarti è nell’abbassare il punto vita per cercare di alleggerire un impianto di cui non colgono l’aspetto complessivo. Il risultato, infatti, appare esattamente opposto alle intenzioni. Portare l’abbottonatura in basso sviluppa baveri lunghi e ingombranti e inoltre spinge la partenza delle code così in basso che restano solo due soluzioni: o dare un netto colpo di forbice che lascia un antiestetico dente lì dove dovrebbe esserci una parabola continua, o lasciare che questa prosegua. Il problema è che con uno spazio di rientro così limitato si ottengono code ingombranti come un frigorifero.

Il morning coat deve dare all’uomo l’aspetto di un grillo, con zampe lunghe e scattanti su un corpo sottile. Se lo si abbottona troppo in basso si finisce invece per somigliare a uno scarafaggio, il che non è il massimo. Come si vede dalla foto di apertura, il capo realizzato dai fratelli Marchesini risponde pienamente alle regole dell’arte. I baveri sono proporzionati e il punto vita al posto giusto, in modo che il tronco risulti stilizzato e il corpo assottigliato da code che scivolano lasciando una bella apertura in basso e non in alto, dove non serve a nulla visto che comunque ci sarà l’accollatura del gilet. Il giro alto lascia correre manica e fianco ben lontani l’una dall’altro, idealizzando la figura. L’unico appunto lo muoverei a un fondo manica la cui larghezza non si abbina alla finezza del resto, ma trattandosi di una seconda prova c’è modo di metterlo a punto.

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