SETTEMBRE 2021 EDITORIALE

Set 15 2021

Non so voi, ma personalmente sono stufo di vivere in città trasformate in palestre. Non credo che sia perché l’Italia abbia vinto gli Europei di calcio. Non credo nemmeno che sia la conseguenza delle 40 medaglie conquistate ai Giochi olimpici, o per le 69 vinte ai Giochi paralimpici di Tokyo. Resta il fatto che mai come quest’anno la Penisola sembra una palestra invasa e vissuta come un grande centro ricreativo. Sul tram, in metropolitana, per strada, al ristorante a cena o a pranzo (evito di parlare di quelli consumati in certi ristoranti, di certe spiagge, o peggio ancora su certe barche (!), sarebbe come sparare sulla Croce Rossa, vere e proprie riedizioni della Cena Trimalchionis), ai cocktail, in posta, in banca tutti, ormai, padri e figli con i pantaloni corti, coordinati alle ciabatte infradito, i più raffinati a ciabatte della nonna con pelouche, o a scarpe ginniche con relativa mutanda da piede, che qui e là sbuca e fa capolino. Quelli che invece hanno deciso di vestirsi, ma sempre senza tradire la legge della moda, si abbigliano e circolano ovunque in tuta. Se ne vedono di tutti i colori, possibili e immaginabili, di nylon o di cotone, di ciniglia o in cashmere, con tanto di coulisse e fondo pantalone elasticizzato. Per non parlare della cura personale, dell’urbanità. Teste sempre più rasate da tosacani, barbe (tranne qualche eccezione) sempre più trascurate, sciatte, incolte. «Biciclettisti» tra i più scorretti della storia spadroneggiano per la città senza rispettare niente e nessuno. Giardini diventati veri e propri letamai, cani che giustamente sporcano e padroni incivili e maleducati che non puliscono.

Un cattivo gusto dilagante, dall’alto al basso e viceversa, della società. Un’enorme voragine aperta che ha inghiottito la famiglia, la scuola, l’etica, il rispetto, l’urbanità, l’obbedienza, la disciplina, lo stile, l’eleganza. Un golpe trasversale, internazionale, imposto dal «gaio» pensiero unico che pretende di insegnare a tutto il mondo come vestire, mangiare, parlare, amare, votare. Ma vanno ben oltre: dettano alla società attraverso politicanti da strapazzo, quotidiani, periodici, televisioni e canali social le regole di come vivere ed essere felici, ben voluti e avere successo su questa terra senza fare nulla. Come? Semplice, basta avere e favorire il colore della pelle che indicano, la religione che consigliano, il sesso che vogliono e il gioco è fatto, a patto di dimenticare la cultura storica del Paese e le obsolete tradizioni. Ma soprattutto obbedire alle scritture dettate dagli dèi della tecnologia. Anche no, grazie! Amo e sino alla fine dei miei giorni amerò le regole, la famiglia, la tradizione, l’onore e la patria. Regole create nei secoli per vivere meglio, se tutti le rispettassero! Ecco perché ho voluto nel numero di settembre, un mese, per chi lavora, sinonimo di ripartenza di un nuovo anno, che assume in questo 2021 una doppia ripartenza, ribadire il pensiero Arbiter. Un pensiero semplice, profondo, antico che parte da Tito Petronio Nigro, scrittore, politico e arbiter elegantiarum vissuto alla corte di Nerone 2mila anni fa. Elegans, come scrivevano i latini, indica l’uomo che ha la capacità di saper scegliere! Non è un caso che la storia dell’uniforme risalga al tempo delle legioni romane. Un capo su tutti, il sagum, e la paenula. Mantelli rettangolari e tondi di stoffe in lana bollita, impregnata in certe occasioni di oli, per proteggersi dal grande freddo. Del resto, il 65% dei capi maschili proviene dalla storia e cultura militare. Già l’opera di copertina, realizzata da Giorgio Brina e Simone Novara, rappresenta un’astrazione di rigore e forza, come le lance impugnate da cavalieri che in battaglia s’incrociano, si spezzano disegnando con la complicità dei colori vessilli e forme di disciplinate geometrie di gran classe e stile.

Così nasce questo numero, dedicato allo Stile del Comando e alla sua etica. L’esempio parte sempre dall’alto. Perché chi veste una «divisa» e impartisce ordini e comandi deve essere consapevole e sapere che rappresenta innanzitutto se stesso (!) ma è anche un biglietto da visita per l’azienda, la famiglia, il Paese. Il modo di vestire, l’uniforme che tutti i giorni indossiamo, così come la foggia che abbiamo scelto, non possono essere pensate e create da uno stilista, perché esse sono il risultato di una sintesi della nostra storia, della nostra cultura, della pertinenza dell’essere, oggi come domani. Vi siete mai soffermati a osservare l’eleganza di un comando dato al cambio della guardia dei nostri Corazzieri dinanzi al Quirinale? E non avete mai visto con che stile il nostromo fischia al vento i comandi in manovra ai futuri ufficiali sul Vespucci? Se vi capiterà, non perdete l’occasione di seguire un evento o un giuramento nelle Accademie militari d’Italia, a Modena come a Livorno, a Bergamo come a Pozzuoli o nelle scuole militari come la Teulié a Milano, la Nunziatella a Napoli, la navale Francesco Morosini a Venezia, o quella aeronautica Giulio Douhet a Firenze. Sarete orgogliosi di essere italiani e capirete come potremmo avere un’Italia più bella, colta ed educata. A proposito, l’educazione non è solo quella con cui ci si comporta, ma è anche l’educazione al bello e all’eleganza. Per esempio di uno degli abiti che tra meno di un mese sfileranno sulla passerella del secondo Trofeo Arbiter, in occasione di Milano Su Misura. è iniziato il conto alla rovescia per i sarti, cavalieri pronti a confrontarsi per aggiudicarsi l’ambito premio. Un confronto tra etica ed estetica. Perché, ricordatevi che la forma è sostanza!

 

 

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